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La storia

La storia della Mini, dall’uscita del primo modello nel 1959 ai nostri giorni.
La prima sezione descrive la storia vera e propria: il progetto, la messa in produzione, l’evoluzione dei vari modelli ecc…
Nella seconda, sono elencati i più conosciuti modelli di Mini e alcune varianti, con una breve descrizione e le caratteristiche peculiari di ogni modello.

Storia della mini

Alexander Arnold Constantine Issigonis, il padre della Mini, aveva idee estremamente chiare su come costruire e su come imporre alle persone un mezzo pratico ed economico. “Imporre” non è un termine esagerato, perché Sir Issigonis sosteneva che “la gente non sa quel che vuole, sono io che devo suggerirglielo”.
Nato nel 1906 a Izmir (Smirne) da genitori europei (il padre era un inglese di origine greca, possessore di un cantiere navale, e la madre era figlia di un industriale bavarese della birra che aveva costruito una fabbrica a Smirne), Issigonis aveva vissuto agiatamente, con insegnanti privati ed un gran numero di servitori, fino all’entrata della Turchia nella prima Guerra Mondiale a fianco dei tedeschi; dopo le vicissitudini del periodo bellico e l’occupazione greca di Smirne, nel 1922 Kemel Attaturk rioccupò la città e gli inglesi furono evacuati a Malta.
Dopo la morte del padre, il sedicenne Issigonis approdò con la madre in Inghilterra ed iniziò a frequentare, per propria scelta, il Politecnico di Battersea, dove conseguì tre anni dopo il diploma di ingegnere. Lavorò alla Gillett di Londra, dove partecipò allo sviluppo di una primitiva trasmissione semiautomatica, per passare successivamente alla Humber, da poco acquisita dal gruppo Rootes, e poi, nel 1936, alla Morris.
Durante il periodo Humber, in cui iniziò ad occuparsi di sospensioni, Issigonis realizzò assieme all’amico George Dowson, un ingegnere contadino di Coventry, la sua prima vettura completa, la “Lightweight Special”, una monoposto da competizione dotata del motore della sua Austin Seven Ulster con compressore. L’esperienza di quella vettura fu molto utile anche nel lavoro successivo per la Morris: la realizzazione di una sospensione anteriore a ruote indipendenti completa degli organi di sterzo, impiegata nel dopoguerra dalla MG, a partire dalla YType del 1947 per proseguire la sua lunga vita, attraverso le varie serie T e la A, fino al modello B.
Già nel periodo bellico, però, Issigonis stava componendo nella sua mente un mosaico molto personale le cui tessere avrebbero costituito i principi ispiratori della sua filosofia progettistica per i decenni successivi: piacevolezza di guida, stabilità a tutta prova, tanto spazio a disposizione dei passeggeri, economicità di utilizzo.
I prototipi della sua prima realizzazione integrale, la Minor, presero forma nel 1943 e vennero denominati “Mosquito”. Il progetto fu approvato nel ’45, quando la maggior parte del lavoro di sviluppo era in realtà già stata svolta. La prima vettura milionaria dell’industria automobilistica britannica, presentata nel 1948, fu subito un successo, ma non riscosse un gradimento universale; lo stesso William Morris, “Lord Nuffield”, non si volle far ritrarre assieme alla Minor, sbottando:
“Portatela via, sembra un uovo schiacciato”.

Ma la freddezza dimostrata dai capi “storici” fu poca cosa rispetto alle prospettive per gli anni a venire: Morris e Austin si unirono nella British Motor Corporation nel 1952, lasciando poche speranze alle tendenze più creative, tese com’erano a consolidare la propria posizione ed a razionalizzare la produzione negli anni difficili del dopoguerra. In questa situazione era facile prevedere poco spazio per gli esperimenti di Issigonis, che proprio in quel periodo stava lavorando su una Minor a trazione anteriore. Da qui la coraggiosa migrazione alla Alvis, Casa produttrice di veicoli militari e vetture di qualità, che lasciò mano libera al progettista per la realizzazione di una berlina sportiva da sviluppare dal classico “foglio bianco”, rispettando due direttive fondamentali: un motore 8V con albero a cammes in testa da 3 litri ed un sistema di sospensioni esclusivo e finora mai adottato da una vettura, il “Moulton Hydrolastic” (dal nome del progettista, Alex Moulton), con elementi anteriori e posteriori interconnessi idraulicamente.
Mentre Issigonis metteva a punto un prototipo destinato a non entrare in produzione, ma che avrebbe rispecchiato in pieno i suoi principi (tranne forse quello dell’economicità), Sir Leonard Lord, “Lord Lambury”, classe 1896, ex Austin ed ora BMC, cominciava a paventare anni più difficili per l’automobile: al di là della situazione economica del dopoguerra, forse una premonizione della crisi di Suez del ’57, ad ennesima dimostrazione del fiuto di uno degli imprenditori più brillanti nella storia dell’industria inglese.
Fu così che nel 1956, dopo essere tornato da Coventry a Longbridge, Alec Issigonis si ritrovò alla guida di un gruppo comprendente Chris Kingham e John Shepard, “rubati” alla Alvis, e Jack Daniels, già telaista della Minor, impegnato nel progetto XC9001, codice che identificava una vettura a trazione anteriore di 1.500 cc di cilindrata. Il propulsore previsto (tanto per non buttare via niente) era in pratica una bancata dell’8V Alvis, e le sospensioni (come sopra) erano le Hydrolastic.
L’obiettivo di proporre al pubblico un prodotto più interessante della media delle vetture disponibili venne riaggiustato a distanza di qualche mese, quando la Gran Bretagna dovette razionare il petrolio, con conseguente proliferazione di “microvetture” sia italiane (Isetta) che tedesche (Heinkel, Messerschmitt, BMW Isetta) e inglesi (Bond “Minicar”, ulteriori Isetta). Tutto ciò significava un mercato nuovo da assecondare al più presto, ma anche un insulto alla tradizione e al buon gusto dell’industria automobilistica britannica, almeno secondo la visione di Lord Lambury.
Per Alec Issigonis divenne allora prioritario creare un’automobile moderna ed economica, piccola ma dignitosa, che potesse “spazzare le strade da queste orrende creature”: anche in questo caso completa libertà di azione, col solo obbligo di utilizzare un propulsore esistente e collaudato. Una condizione, questa, a cui aveva dovuto sottostare gia all’epoca della Minor, per la quale avrebbe desiderato un motore totalmente nuovo, a quattro cilindri orizzontali contrapposti. In ogni caso, un progetto ambizioso per una vettura diversa, perché, sono ancora parole di Leonard Lord, “costruendo automobili tremendamente buone, quella di venderle è l’ultima delle preoccupazioni”: com’erano cambiate le cose alla BMC, nel giro di pochi anni!
La Mini nacque allora da una sollecitazione legata alla situazione contingente ma “creativa” al tempo stesso, e quindi come una palestra ideale per un progettista originale, che si trovava piacevolmente costretto a riassumere nella stessa automobile le intuizioni messe a fuoco nel corso degli anni.
Il progetto ADO (“Austin Drawing Office”) numero 15 avrebbe brillato per il massimo sfruttamento dello spazio; a questo scopo, motore, trasmissione, ruote e sospensioni dovevano interferire il meno possibile con il volume destinato all’abitacolo (per almeno quattro persone) ed al bagagliaio. La soluzione della trazione anteriore, da tempo accarezzata da Issigonis, si dimostrò praticamente obbligatoria. In quegli anni, tedeschi e francesi avevano già sdrammatizzato questo schema di trasmissione, mentre in Italia, malgrado gli studi già effettuati da anni, sussistevano non poche resistenze da parte delle Case maggiori.
Si narra che il progetto Fiat, opera di Oreste Lardone e già pronto all’inizio degli Anni Trenta, venne scartato perché durante la prova su strada del prototipo, con Giovanni Agnelli a bordo, la vettura prese fuoco! Il malumore derivante dall’episodio, in questo caso, avrebbe influenzato le scelte tecniche di alcuni decenni.
In Gran Bretagna, vetture a trazione anteriore avevano figurato regolarmente nel listino di alcune Case minori, come la BSA (celebri le Scout degli anni ’35/’40) e la Alvis (già negli anni ’20, e con i motori della serie F), ma non ancora in quello delle marche principali. Nel 1948, Leonard Lord aveva acquistato per 10.000 sterline il prototipo “Duncan Dragonfly”, realizzato da un gruppo di progettisti di North Walsham, nel Norfolk, con trazione anteriore e sospensioni con elementi in gomma, senza che comunque l’interesse per questo studio influisse minimamente sull’Austin A30, prossima alla presentazione e rigorosamente ortodossa.
Nella ADO 15 si fecero due passi in avanti, disponendo il motore trasversalmente per ridurre l’ingombro e per ottimizzare la distribuzione dei pesi, e collocando il cambio sotto al motore, praticamente “dentro la coppa dell’olio”. Un’idea che Issigonis metteva in pratica per primo, e non senza difficoltà, ma che vedeva un precedente in uno studio di Alan Lamburn per una vettura economica, descritto in un articolo di Gordon Wilkins nel numero di Autocar del settembre ’52 e proposto allo stesso Issigonis, che si era dimostrato molto interessato alla novità.
Tra i motori “imposti” la scelta cadde quasi obbligatoriamente sull’Austin serie “A”, introdotto nel ’51 con la A30 e nel frattempo cresciuto da 803 a 948 cc per l’impiego nella evoluzione A35 e nella Morris Minor. Dopo gli esperimenti con “mezzo” motore “A” (un bicilindrico di 450 cc, rivelatosi inadeguato per potenza e rumorosità), si optò per il propulsore standard.
A completamento del gruppo motore-trasmissione (miracolosamente condensato in meno di mezzo metro di ingombro longitudinale) l’adozione dei giunti omocinetici Hardy Spicer, derivanti da un brevetto del cecoslovacco Hans Rzeppa risalente al 1926 e perfezionati in Inghilterra. Rispetto ai tradizionali giunti cardanici, annullavano quasi completamente le reazioni allo sterzo e risolvevano i problemi che nei primi esperimenti con le “Minor tutto-avanti” erano rimasti irrisolti.
Le concezioni estetiche di Issigonis erano improntate alla massima funzionalità; in questo caso, date le ridotte dimensioni, le ruote e le sospensioni dovevano contribuire alla compattezza ed alle proporzioni d’insieme. La scelta cadde su ruote da 10 pollici, per le quali nessuna Casa inglese di pneumatici aveva allora in produzione pneumatici adatti. Mentre la Dunlop provvedeva ad assecondare l’originale richiesta, i test vennero effettuati con le ruote di una Goggomobil, le uniche allora a disposizione di quel diametro.
Le sospensioni con elementi in gomma, nelle idee del progettista, avrebbero infine garantito un adeguato assorbimento delle sollecitazioni trasmesse alla scocca da ruote così piccole, con tempi di reazione inferiori a quelli delle molle elicoidali. Una soluzione, questa, rimasta tipica della Mini, ma non priva di controindicazioni, data la tendenza della gomma a perdere elasticità nel tempo. Malgrado ciò, dopo il periodo Hydrolastic (dal 1964 al 1968 per la Mini tradizionale, dal 1969 al 1971 per la Clubman), questo tipo di sospensione, opportunamente rivisto, tornò ad equipaggiare l’utilitaria britannica.
Nell’autunno del 1957, i primi prototipi iniziarono ad eseguire i test stradali: le “scatole arancione”, come vennero soprannominate soprattutto per il colore (ma anche il richiamo alla “scatola” sarebbe rimasta una costante della vettura) avevano quasi l’aspetto definitivo, a meno della griglia anteriore stile A35, con intenti di camuffamento, simpaticamente stridente con tutto il resto.
Se le caratteristiche stradali confermarono quanto era stato previsto a livello di progetto, il congelamento dei carburatori al di sotto di determinate temperature suggerì una rotazione di 180 gradi del propulsore, in maniera tale da collocare il gruppo di alimentazione in una zona protetta. La nuova disposizione impose un ingranaggio supplementare tra motore e cambio (per mantenere lo stesso senso di rotazione) ed una riduzione della cilindrata a 848 cc: alla famiglia dei motori “A” si aggiungeva quindi una nuova versione a corsa corta.
L’approvazione incondizionata di Leonard Lord (“Mettetela subito in produzione!”) dopo i primi test accelerò lo sviluppo in vista della presentazione. Una modifica importante fu rappresentata dall’adozione di telaietti separati per l’avantreno ed il retrotreno, per ridistribuire le sollecitazioni su un’area maggiore della scocca. La batteria fu inoltre spostata dal vano motore al bagagliaio, per migliorare la distribuzione dei pesi. La tendenza al bloccaggio delle ruote posteriori in frenata, che aveva suggerito questa modifica, non venne comunque mai eliminata completamente.
La presentazione ufficiale della vettura, sia come Austin Seven (anzi, “Se7en” nelle prime pubblicità) che come Morris Mini Minor avvenne il 26 agosto 1959, dopo che la produzione era già stata avviata in aprile a Longbridge, negli stabilimenti Austin, ed in maggio alla Morris a Cowley. Nel corso di quell’anno le riviste di tutto il mondo avevano già pubblicato qualche disegno in anteprima: curiosamente, la stampa specializzata italiana anticipava già che l’innovativa utilitaria inglese sarebbe stata montata anche in Italia dalla Innocenti, con circa sei anni di anticipo sulla realtà, ed ancora prima che nello stabilimento di Lambrate venisse assemblata la prima A40 su licenza.

In ogni caso, e come era prevedibile, la Mini diede uno scossone non da poco al mondo dell’automobile in quello scorcio di fine decennio. Inizialmente, all’entusiasmo della critica non si accompagnò altrettanto entusiasmo da parte del grande pubblico. Quella vettura, concepita nelle intenzioni per la motorizzazione di massa, incontrò per primo il favore dell’utenza più raffinata, che ne aveva subito apprezzato la forte carica innovativa. La connotazione “chic” anticipò quindi quella popolare: malgrado il prezzo competitivo al quale la vettura fu posta in vendita, la Mini dovette superare l’impatto “sconvolgente” ed alcuni problemi di qualità per gli esemplari prodotti nel corso del primo anno.
La vetusta A35, mantenuta in produzione nelle versioni commerciali fino al ’68 (ereditando tra l’altro il motore di 848 cc nel ’64), uscì di scena come vettura familiare in concomitanza con la presentazione della Mini, anche se in realtà già nel ’58 era nata la A40 con carrozzeria Pininfarina, nella quale si potrebbe vedere un accenno di continuità con la vecchia utilitaria. La Morris Minor proseguì invece la sua lunga carriera fino al 1971, sempre apprezzata dalla clientela più tradizionale.
Tralasciando i paragoni con le vetture BMC, la Mini si collocava comunque in una fascia di mercato comprendente vetture molto meno avventurose. La gamma Fiat del tempo non prevedeva “mezze misure” tra la 600 e la 1100: la 850 sarebbe arrivata nel ’64, ed era ancora una vettura a motore posteriore. Si devono attendere la Autobianchi Primula (’64) e la 128 (’69) per avere due esempi del gruppo torinese ispirati in qualche modo all’architettura della vettura di Issigonis. La prima vera Mini del gruppo Fiat (la A112) sarebbe arrivata nello stesso periodo, costituendo, tra l’altro, una delle reinterpretazioni più riuscite dello stesso tema.
Altre Case seguirono filosofie differenti; la Ford presentò la nuova Anglia 105E nel ’60, vettura tradizionale e di successo, e la Triumph uscì proprio nel ’59 con la Herald, altra vettura di impostazione classica. La Hillman, già nel gruppo Rootes, uscì anche essa nel ’63 con la propria Mini, la Imp, con motore posteriore, che non ebbe il successo sperato, ed anche la Simca si conformò allo schema del motore posteriore con la 1000 del ’62.
La Renault mantenne in produzione vetture a motore posteriore della stessa cilindrata (Dauphine, R8) affiancandole con una trazione anteriore (R4) di stile molto diverso. Le Saab e le Auto Union-DKW erano trazioni anteriori “storiche”, ma ancora con motore longitudinale e a due tempi; la copia più fedele della Mini, la Honda N (360 e 600 cc) sarebbe uscita nel ’68, rimanendo per anni una potenziale concorrente esotica e poco diffusa in Europa. In ogni caso, si sarebbero dovuti attendere gli anni ’70 per vedere le varie “supermini” delle Case principali (127, R5, Fiesta, Polo, 104, ecc…).
La Mini è considerata spesso “una tipica vettura inglese”: si potrebbe discutere a lungo sul significato di questa affermazione. Se consideriamo la maggior parte delle vetture inglesi prodotte fino al ’59, possiamo individuare una serie di caratteristiche comuni e distintive (stile, sportività, classicità ecc…) senza per questo scorgere qualcosa di veramente innovativo. Curiosamente , la vettura che ha rotto in modo decisivo ogni legame con la tradizione è diventata un simbolo di una delle nazioni più tradizionaliste.
In questo caso, però, concorrono alla costruzione del “mito” componenti legate alla moda, al costume, all’immagine della “swingin’ London” e della dissacrazione, che poco hanno da spartire con la tradizione tecnica del motorismo britannico; anzi, l’accostamento tra la Mini e la Rolls Royce potrebbe equivalere in qualche modo a quello tra i Beatles e la Regina Elisabetta, non dimenticando che fu proprio la Regina a nominare “baronetti” i quattro di Liverpool. Potevano quindi mancare, in questa armonica commistione di sacro e profano, le reinterpretazioni “all’inglese” di un automobile d’avanguardia come la Mini?
Le prime Seven e Mini Minor si distinguevano per gli allestimenti spartani e per le novità dei “due volumi”, con il risultato di un’aria sbarazzina ed informale: ma niente paura, richiamando alcuni “simboli della tradizione” (cruscotto di radica, sedili in pelle, codine e radiatore verticale), l’effetto si poteva cambiare (rovinare?) di colpo.
Fu così che nel ’61 vennero ricavate dalla Mini la Riley Elf (folletto) e la Wolseley Hornet (calabrone). Si trattava di un tipico esempio di “badge engineering” applicato alla “piccola” del gruppo BMC, utilizzando due marchi di prestigio che oramai avevano perso da tempo la propria identità. La Wolseley era leggermente meno rifinita della Riley, e quindi un po’ più economica. Queste due curiose vetturette proseguirono la loro carriera fino al ’69, raggiungendo la terza serie e totalizzando un discreto numero di esemplari (30.192 Elf e 28.455 Hornet), quasi esclusivamente sul mercato inglese.

Una variazione sul tema più pratica, ma che accostava sempre elementi moderni e tradizionali, nacque invece già nel ’60, con le due giardinette Seven Countryman e Mini Traveller, che richiamavano alcune delle caratteristiche tipiche della Morris Minor Traveller, come i profili in legno (con pura funzione decorativa) e la doppia portiera posteriore, per accedere al vano di carico. Successivamente, fu disponibile anche una versione semplificata, senza guarnizioni in legno; sullo stesso pianale (a passo allungato rispetto alla berlina) vennero realizzati anche un Van (furgoncino chiuso) ed un Pick-up (camioncino), rimasti in produzione fino al 1982. Tutte queste versioni da trasporto della Mini non impiegarono mai le sospensioni Hydrolastic.
Alec Issigonis fu nominato Direttore Tecnico della BMC alla scomparsa di Leonard Lord, nel 1967; in realtà, però, sin dall’epoca della Mini la sua influenza sugli orientamenti del gruppo era stata particolarmente pesante. I principali modelli successivi furono per molti versi uno sviluppo della stessa idea di base: trazione anteriore, motore trasversale, carrozzeria a due volumi larga e bassa, con le ruote “ai quattro angoli” e grande abitabilità.
La 1100 (ADO 16), prodotta anch’essa inizialmente come Austin e Morris, ma poi estesa praticamente a tutti i marchi della BMC, ebbe un grande successo ed adottò subito (e quindi per prima) le sospensioni Hydrolastic. La 1800 del 1964, pur essendo altrettanto moderna rispetto alla concorrenza, non entusiasmò allo stesso modo il pubblico, come pure tutte le varie versioni derivate nel corso degli anni (tra cui la 3000 con motore a sei cilindri e la Maxi 1500 del 1969). La filosofia di Issigonis, che privilegiava la funzionalità all’estetica, non ripagava quando veniva applicata a vetture di classe superiore.
Altro punto dolente di questa gestione, il basso profitto che la produzione di queste vetture, costose da produrre, consentiva di raggiungere. Da questo punto di vista, la BMC 1100 fu sempre più brillante della Mini, che doveva essere venduta quasi sottocosto per poter competere, ad esempio, con la Ford Anglia. A questo proposito, la Ford effettuò nel 1961 uno studio proprio sulla Mini per valutare il suo costo di produzione: secondo i risultati, la BMC perdeva trenta sterline per ogni Mini costruita!
Nel 1968 avvenne la fusione tra una BMC (divenuta nel frattempo British Motor Holding) in piena crisi e la Leyland, a costituzione del gruppo British Leyland Motor Company. Lord Stokes, presidente dal ’69 della BLMC, giudicò eccessiva l’influenza esercitata da Issigonis sugli orientamenti di mercato della BMC: non a caso, negli anni successivi, la vetture ex-BMC a trazione anteriore lasciarono spazio a modelli più tradizionali ed economici da produrre (come la Morris Marina), nell’intento di riguadagnare terreno anche nel settore delle “vetture di flotta”, acquistate a stock dalle compagnie di noleggio o dalle grandi aziende. Le precedenti vetture BMC venivano automaticamente scartate come potenziali “fleet cars”, perché giudicate poco affidabili e di manutenzione costosa. Nemmeno quella fu la strada della rinascita, come dimostrarono i fatti degli anni successivi.
Malgrado la situazione della BLMC, però, la Mini continuò imperterrita il suo cammino, guadagnandosi un marchio tutto suo nel 1970 e difendendosi molto bene dagli “attentati” provenienti dall’interno del suo stesso gruppo. Uno di questi, il tentativo di conferirle una maggiore “importanza” con la serie Clubman, un altro la presentazione, nel 1980, della sua ideale evoluzione, la Metro. Dopo il primo milione di esemplari, raggiunto nel 1965, ed il secondo, nel 1969, la Mini proseguì tranquillamente fino al terzo (1972), al quarto (1976) ed al quinto milione (1986).
Sir Alec lasciò questo mondo nel 1988. Il suo ultimo incarico fu quello di Direttore della Ricerca; quando andò in pensione, nel ’71, per il regalo d’addio il personale della Leyland assecondò una sua singolare richiesta: la più grande delle confezioni di Meccano, la “Numero 10”. Un dono di cui andava orgoglioso, un gioco intelligente e “pratico”, ideale per un ingegnere “con le mani sporche di grasso”, che amava definirsi “un venditore di ferro”.
Nel 1990, con 31.655 unità esportate delle 46.045 prodotte, quella che oramai si chiamava Rover Mini era ancora la vettura inglese di maggior successo all’estero. I risultati conseguiti giustificavano gli investimenti necessari per adeguarla alle norme anti-inquinamento, ed il fido carburatore SU del classico propulsore “A” lasciava spazio ad un impianto di iniezione. Pare che la Rover abbia pianificato la costruzione dell’attuale Mini, nelle varie versioni, almeno fino al 1995, ma non siamo davvero in pochi a credere che una Mini verrà prodotta “per sempre”.

Tratto dalla rivista “Auto d’Epoca” di novembre 1992